lunedì 21 settembre 2015

Intercultura al nido: prospettive possibili

Ormai è inutile raccontare il fenomeno sempre in crescita di "culture altre" che arrivano nelle scuole italiane: ne siamo tutti a conoscenza. L'asilo nido però rappresenta uno spazio essenziale perchè è il primo ad accogliere bambini e famiglie ed è il primo luogo dove ci si misura con sistemi valoriali e abitudini di vita diverse.

Ho frequentato diversi corsi di formazione sull'intercultura. In tutti i casi non abbiamo lavorato su percorsi pratici specifici, ma l'obiettivo è stato quello di abbattere i pregiudizi che troppo spesso ostacolano la creazione di relazioni efficaci con i bimbi e i loro genitori.

Ricordo, ad esempio, un documentario sul pranzo di bambine di due anni, che abitavano in parti del mondo diverse: le prospettive cambiano, soprattutto in base agli spazi e ai conseguenti modi di vita.

Personalmente ho lavorato in zone ad alto tasso di immigrazione e quando ho avuto l'opportunità di lavorare con famiglie di culture diverse, ho fatto un sacco di domande a babbi, mamme e fratelli sul posto dal quale provenivano e sulle loro abitudini.

Conoscere è stato il primo passo per lavorare meglio, non essere giudicante e creare un rapporto di fiducia con loro. 

Alcune educatrici hanno raccontato durante le lezioni di formazione, di aver attuato progetti per coinvolgere maggiormente le famiglie di tutti gli utenti. Sono stati realizzati laboratori a carattere musicale per condividere ninna nanne e canzoncine di parti del mondo e dell'Italia differenti. 

Analogamente, sono stati previsti dei momenti in cui i genitori raccontavano fiabe tipiche del loro posto di provenienza, magari con l'aiuto di scatole narranti. In alcuni casi alle feste, è stato richiesto di preparare un cibo tipico della zona di origine.

Ricordiamoci che anche l'Italia è un crogiuolo: ogni regione, e tante volte ogni "campanile", ha tradizioni differenti, dialetti specifici e usi e costumi particolari. 

Voi avete mai attuato progetti volti all'intercultura? Lasciate un commento e condividete con noi le vostre esperienze.

Per informazioni maggiori sull'argomento, consiglio la pubblicazione del Comune di Firenze sul tema.

mercoledì 26 agosto 2015

Compiti estivi: sì o no?

Ormai il rientro a scuola è sempre più vicino e parlare di compiti delle vacanze appare un po'polemico e forse sterile. Però non posso fare a meno di dire la mia, dopo aver letto l'opinione del signor Parodi, che in questi giorni sta facendo il giro del web.


A onor del vero, non so quando e su quale quotidiano sia stata pubblicata, mi fido delle frasi lette sui social, in cui il messaggio è chiaro: mio figlio non farà i compiti estivi, perchè sono ferie anche per lui.

Ammetto che non ho un figlio e ammetto anche che parlando con tante amiche che li hanno, capisco quanto sia angoscioso dover stare a ripetere le tabelline in una calda domenica pomeriggio di maggio. Però riconosco anche che i compiti sono compiti e la scuola non è un lavoro.

Si va a lavoro per guadagnare soldi, si va a scuola per guadagnare esperienza e conoscenza: la posta in gioco e l'impegno richiesto sono ben diversi. Con questo non voglio dire che i bimbi non si stanchino...anzi, sono la prima ad accorgermi che a fine anno gli animi sono davvero esausti di stare nelle solite quattro mura, di essere costretti a stare seduti per ore di fila, di alzarsi presto la mattina.

Le vacanze sono meritate per tutti: studenti, insegnanti, geometri, commessi... Ognuno ha avuto da sopperire a dei doveri durante l'anno ed è sano dimenticarsene per qualche giorno o settimana. 

E'ingiusto che un'insegnante riempia di esercizi i propri alunni: si perde il senso della pausa estiva e i compiti verranno realizzati "tanto per fare". Però...leggere un libro, scrivere un tema, fare qualche conto di matematica non possono diventare un peso insormontabile.

Se fossi un genitore, non vorrei discutere di didattica con la maestra di mio figlio: che competenze posso avere a riguardo? Se sono il primo a considerare le lezioni a casa un peso, come posso pretendere che mio figlio le faccia volentieri? Fare il genitore non significa fare l'aguzzino, ma significa essere un esempio e se io critico la maestra, anche mio figlio lo farà.

Forse sono ancora un'utopica che crede che la scuola sia piena di occupazioni creative e ricreative, che sarebbe meglio che i bambini facessero uno sport in meno e una passeggiata in più, che il diritto al riposo e allo svago ci si guadagna. 

Ricordate la maestra che per Pasqua ha dato una lista di compiti alternativi? Ecco, quello è il mio ideale ed è a esempi così che ci sarebbe da ispirarsi: pochi, buoni e mirati a godersi la vita. 



Girerò questo post al signor Parodi e se ha voglia di rispondere, con un commento o una mail, sono sempre contenta del confronto.


martedì 28 luglio 2015

Stiamo arrivando!

Quest'anno siamo state meno attive sul web per un semplice motivo: Educhiamo! sta crescendo nella vita reale. Il progetto che stiamo portando avanti prende il nome dal blog e passo per passo, racconteremo quello che faremo da settembre in avanti scrivendo tanti bei post.

Le fondamenta rimangono sempre quelle della condivisione e raccontare le nostre esperienze servirà per avere un confronto con tutti i lettori. Quindi fateci un favore: tenetevi aggiornati! ;)

Di cosa ci occuperemo? Per adesso stiamo mettendo a punto un percorso di sostegno alla genitorialità ma più di questo non possiamo dirvi: tutto è in fase di progettazione e per scaramanzia è meglio tenere la bocca chiusa ancora per un po'!

Come sempre però restiamo disponibili a nuove collaborazioni: avete voglia di scrivere qualche post per il blog, volete avere informazioni sui nostri incontri, vi interessa parteciparvi... se volete saperne di più contattateci via mail a educhiamo@libero.it oppure sul gruppo o sulla pagina Facebook.

Intanto... ci godiamo le meritate ferie e auguriamo a tutti voi Buone Vacanze!
Ci vediamo a settembre!!!

Valentina&Alessandra

martedì 5 maggio 2015

L'ambientamento al Nido: una questione di fiducia

Cari lettori/lettrici di "Educhiamo", per questo nuovo articolo ho pensato di proporvi un argomento sempre attuale che ci permette di riflettere insieme e che vi permette di raccontare e condividere le vostre esperienze sia come genitori che come educatrici/educatori: Asilo Nido sì oppure no? E quale impatto può avere una tale scelta sullo sviluppo relazionale e sociale di vostro figlio/a, se diamo per scontato che abbia un'influenza?
La Psicologia dell’età Evolutiva ha dedicato, negli ultimi trent’anni, una crescente attenzione alle prime fasi dello sviluppo sottolineando come sia significativa la precocità di molti aspetti cognitivi e sociali che il bambino acquisisce tra gli 0 e i 18 mesi di vita.
Ma cominciamo dal principio...
Come prima cosa, si è scoperto che il bambino, fin dai primi momenti di vita, è competente ed attivo nei confronti dell’ambiente, e dotato di capacità proprie. Nello sviluppo affettivo e cognitivo del bambino viene riconosciuta grande importanza alla socialità intesa sia come sviluppo di rapporti di attaccamento verso adulti significativi (genitori ma anche figure di accudimento), sia come relazione sociale con i coetanei.
Per un bambino infatti entrare al nido può avere diversi significati, fra cui:
  •  conoscere spazi e persone mai viste prima;
  • abituarsi ad un’organizzazione della giornata diversa da quella di casa;
  •  imparare a stare bene anche lontano dai genitori;
  •  accettare altri punti di riferimento;
  •  accettare di relazionarsi e "mediare" con altri bambini;
  •  superare le frustrazioni e, in questo modo, imparare ad affrontare meglio la realtà.
Quelle appena citate non sono altro che le "life-skills" ovvero le capacità di adattarsi alla vita e a come essa si presenta, le risorse personali di ognuno, che dunque, il bambino comincia a "maneggiare" proprio nell'ambito del Nido.
E' anche vero però che non tutti i bambini hanno  reazioni "positive" al Nido, ancor di più nel momento dell'inserimento. Infatti, diversi possono essere i comportamenti che il bambino può manifestare:
  •  il bambino piange quando il genitore si allontana dal nido;
  •  il bambino ricerca un rapporto fisico "privilegiato" con l’educatore;
  • il bambino si porta da casa, o porta a casa dal nido, un oggetto che gli dà sicurezza;  ( da casa può portarsi il cosidetto "oggetto transizionale", che il più delle volte è un peluche, un gioco a cui è affezionato o anche una maglia che ha lo stesso profumo della mamma). 
Ad esempio, cosa succede nella testa del bambino quando piange appena la mamma si allontana o quando non riesce a giocare insieme agli altri, stando per conto proprio?
In base a quella che può essere la mia esperienza e la mia professione, quasi sempre il bambino piange inizialmente perchè potrebbe non accettare di essere consolato dall’adulto,  adulto che non è "ai suoi occhi" nè la mamma, nè la nonna, nè il padre e di conseguenza rifiutare il rapporto con gli altri bambini.
Bisogna dire anche, a onor del vero, che ci sono anche alcuni bambini che sono presi dalla curiosità e dalla novità e non mostrano immediatamente queste reazioni,  e tali reazioni possono capitare solo dopo qualche mese dall'ingresso al Nido.
E a casa invece cosa accade? Come viene accolta la notizia del Nido nella famiglia?

Storicamente, la trasformazione della famiglia avvenuta nell'ultimo secolo rende necessario, sempre più spesso, ricorrere alle Istituzioni per l'allevamento e la cura dei figli. La famiglia è diventata infatti mononucleare: non ci sono più nella stessa abitazione come succedeva spesso prima altre figure parentali al di fuori dei genitori (come nonni o zii); inoltre, è molto alta la percentuale di figli unici.

Quindi, con tutti questi cambiamenti storici e familiari possiamo dire che il Nido è diventato un'esigenza "moderna" derivata dal fatto che molte donne lavorano fuori casa e spesso al compimento del terzo mese di vita del bambino hanno bisogno di riprendere l'attività lavorativa sia per mantenersi la posizione lavorativa, sia per un giusto bisogno personale. Inoltre, non vi sono, appunto, altre figure familiari attorno per cui la possibilità di inserire il piccolo nel Nido può essere una buona soluzione.

Difatti, in relazione a questi fattori, alcuni atteggiamenti da parte del bambino che ha appena cominciato ad andare al Nido potrebbero essere questi, accennandone qualcuno...
  • il bambino ricerca con più insistenza uno dei due genitori o tutti e due;
  •  manifesta eventuali cambiamenti nel momento del pasto o del sonno;


Ovviamente, questi comportamenti o atteggiamenti sono normali e legati al fatto che il bambino deve abituarsi alla nuova esperienza e solitamente si risolvono nel giro di breve tempo.


Quindi, il Nido rappresenta a tutti gli effetti il primo passo verso la crescita, ma anche qualcosa di più...se ci pensiamo bene! E' il primo grande atto di fiducia che facciamo nei confronti del mondo esterno e degli altri! Difatti, il piccolo conosce nuove persone, quindi per lui/lei estranei al suo ambiente familiare e deve relazionare con loro, deve conoscerli, deve comunicare con loro, sintonizzarsi sui loro ritmi....beh, detta così può sembrare una questione semplice, ma è tutt'altro per i nostri piccoli! E' l'equivalente di andare in avanscoperta in un territorio dove non siamo stati prima, curiosare, guardare i dettagli, osservare e capire "come funziona" con persone diverse, orari diversi, cibo diverso....

Cosa succede al bambino che vive tutto questo??

Esce dalla fase egocentrica e vede gli altri, si confronta, comunica, il gruppo comincia a svolgere una notevole azione normativa e disciplinare, nonostante la piccolissima età. E' importante  uscire dalla fase egocentrica: solo così imparerà a tenere a freno le proprie pretese e l'esibizione del proprio Io, potendo raggiungere così  uno sviluppo sereno e equilibrato.

Per lasciarvi uno spunto, il Nido può essere uno stimolo per lo socializzazione precoce, un modo che  consente al bambino di  di acquisire consapevolezza delle proprie forze e dei propri limiti, un mezzo utile per conoscersi sempre di più.

Naturalmente, è altrettanto vero che, tengo a dirlo, che la scelta dell'Asilo Nido è sì un passo importante, ma non necessario, visto che in ogni caso il piccolo poi si affaccerà alla scuola materna dove avrà comunque modo di crescere e relazionarsi con gli altri in totale tranquillità.
Come tutte le cose è una questione di scelta...

di Alessandra Bondi

martedì 24 marzo 2015

Osservare per conoscere

Nel lavoro educativo, osservare è una delle azione imprescindibili alla pratica quotidiana: si osserva per capire, si osserva per conoscere, si osserva per contenere le emozioni dell'altro. In effetti ogni programmazione si fonda sull'attenta osservazione dai bambini a cui è indirizzata: nella pedagogia, niente rimane sul piano astratto.

Si osservano i momenti delle routine, le attività più o meno strutturate per comprenderne la validità, si osserva durante l'ambientamento il bambino e le reazioni che instaura durante i primi giorni al nido.

Le metodologie per osservare sono tante e altrettante sono le modalità di registrazione di ciò che si vede: negli anni di lavoro al nido, ho riempito griglia, risposto a domande aperte sullo sviluppo cognitivo e affettivo del bambino, trascritto colloqui con i genitori e quest'anno ho seguito un corso sull'osservazione partecipata.

Questo metodo ha le sue origini nella psicoanalisi freudiana e consiste nello stare in situazione, appuntando solo in un secondo momento quello che avviene e quello che si prova al riguardo.

Si contrappone nettamente alle tecniche più classiche, quelle dell'osservazione oggettiva, alla quale sono più abituata: in questo caso, non si deve cadere nel giudizio, si deve solo guardare da esterno, non entrando in relazione con i soggetti in questione e si trascrive sul momento. 

Ricordo chiaramente il consiglio di un formatore di non utilizzare aggettivi, sempre qualificanti e dunque portatori di valutazione. Quando riporto le osservazioni di questo tipo, continuo a fare molta attenzione al linguaggio che uso.

Comunque, tornando alla metodologia partecipata, devo dire che ha il pregio di non far perdere un educatore. Nell'organizzazione dei servizi, è sempre più difficile ritagliarsi dei tempi per fare osservazione diretta e dunque avere la possibilità di poterlo fare, continuando a svolgere il proprio lavoro, è sicuramente un punto a suo favore.

Mi sono trovata però in difficoltà nella stesura delle mie emozioni. Non che faticassi a capirle: penso che anche l'onestà di comprendere quello che si prova in ogni situazione e cercare di utilizzarlo con professionalità, faccia parte dell'essere educatore. Però scriverlo lo trovo un po'pericoloso, soprattutto in gruppi di lavoro non coesi.

Un'emozione implica un giudizio, positivo e negativo, nei confronti del bambino in questione, degli altri adulti, di se stesso. La condivisione in gruppo dunque diventa difficile se non è ben gestita da un coordinatore che abbia competenze al riguardo. Il piano delle emozioni non è oggettivabile ed è spesso lo scoglio sul quale si arenano i team educativi.

Ritornare sul versante professionale diventa dunque essenziale. Le emozioni non vanno celate e non vanno tenute per sè. Però nel caso delle osservazioni, penso che il fulcro sia il bambino e parlarne su un piano che vuole essere oggettivo (la neutralità completa non esisterà mai) aiuta a dare un quadro composto da diversi punti di vista. 

Parlare poi delle emozioni riguardo ai singoli episodi e casi, può essere utile a una maggiore comprensione, ma penso sia fondamentale ricordare che un educatore osserva la singola situazione per progettare un'azione educativa adeguata e non per analizzare il mondo psico- cognitivo del bambino.

mercoledì 18 febbraio 2015

Un "No!" per aiutarlo a crescere...

La società odierna ci trasmette continui cambiamenti significativi, non solo nei ruoli di padre e madre, ma soprattutto porta con sè delle vere e proprie piccole rivoluzioni nelle dinamiche e nella gestione delle relazioni familiari, ancora di più quando vi è un bambino piccolo.

La relazione con l'adulto è infatti il primo contesto di socializzazione familiare per un bimbo e per far sì che quest'ultimo diventi un adulto sano, indipendente, capace di ascoltare e comunicare è necessario vi sia da parte dei genitori uno stile educativo autorevole, indicato da vari studi sociologi come lo stile più positivo e adattivo per la crescita.

Questo stile di attaccamento autorevole, così nominato da Baumrind negli anni '70 è caratterizzato da impegno e autonomia, dove i genitori diventano una base sicura alla quale il figlio può fare riferimento nel momento del bisogno e dalla quale allontanarsi per esplorare l'ambiente esterno, diventando gradualmente autonomo. Al tempo stesso lo stile autorevole però richiede anche severità, assertività con il piccolo.... e coraggio da parte dei genitori di saper dire di "no!" quando il caso lo richiede...

Posso immaginare già cosa state pensando, cari lettori... sappiamo bene quanto sia difficile dire di no! Ancora di più se si tratta di dirlo ai nostri cuccioli!! Come vi sentite cari genitori, ogni volta che vorreste dire di no e vi ritrovate invece a dire di sì per tantissimi altri motivi?!?!

Beh...cominciando da lontano, dire di "no" rappresenta un problema per gli adulti, figuriamoci per dei genitori; e ciò sarebbe dovuto al fatto che la parola "no" è emotivamente legata al rifiuto personale!

Inoltre, possono essere tante le cause per le quali si fa fatica a dire di no, e fra queste ad esempio dire di "sì" per evitare magari un ennesimo pianto da parte del bambino, che ovviamente reagisce con l'unico mezzo che ha a disposizione: le lacrime o le urla, modo per dire ai genitori che è arrabbiato...perchè non è stato accontentato!

Tornando però al tema di oggi, parlare di assertività nella relazione genitori-figli può essere davvero prezioso. La capacità, infatti, di comunicare in modo diretto soprattutto con i figli, non si eredita, ma la si apprende nel corso della vita con l'esperienza.

Saper dire di no è sicuramente un tassello fondamentale nella crescita di un bambino, ma questo fa parte di un'area ancora più grande di sviluppo, ovvero quella degli atteggiamenti relativi al rapporto con il proprio figlio. Ma quali sono gli atteggiamenti e i comportamenti che è necessario che i genitori abbiano per favorire lo sviluppo dell'assertività con i figli, oltre ad un buon rapporto educativo ed affettivo?
Prima di tutto....


1- Atteggiamento di apertura verso l'altro. 
In altre parole, se il bambino si sente trattato con rispetto e con dignità, anche nelle sue emozioni, allora riconoscerà anche alle altre persone questo stesso diritto. In particolare, il genitore dovrebbe riconoscere nel figlio anche le emozioni più negative e accettarne l'espressione, facendo così passare il messaggio (ad esempio, molto utile con la rabbia espressa dal bambino quando gli viene detto di no) che verrà comunque amato e accettato, nonostante le emozioni negative espresse.


2- Ascoltare. 
Riuscire ad ascoltare può sembrare una banalità a volte, ma è una competenza che la si apprende nel tempo trascorso insieme, nella presenza, nella qualità del tempo. Anche ascoltare è una parte importante nel saper dire di no! Ascoltare infatti comporta dare spazio al bambino, sentire quelle che sono le sue ragioni e per questo meritevoli di essere ascoltate. Invitarlo a parlare o prendersi un momento tutto per sè per raccontare ai genitori com'è andata all'asilo o com'è andata a scuola. Stimolarlo o anche aiutarlo a trovare le parole per descrivere come si è sentito in un'occasione particolare ( ad esempio, in un'attività fatta all'asilo o in un voto che ha preso a scuola).


 3-Trasmettere le regole in modo autorevole. 
Bisogna ricordarsi che fa la differenza come si insegnano le regole di comportamento ai propri figli, tanto che spesso il genitore dimentica che il figlio non è di sua proprietà, ma che va trattato come individuo a sè.

In questi casi, dire di no può davvero mettere a dura prova: il "no" infatti rappresenta un limite, che è in grado però di favorire la crescita del bambino. Infatti, il piccolo non solo imparerà a fare i conti con il senso di frustrazione, capacità assolutamente necessaria nel saper affrontare tutti gli eventi della vita, ma comincerà a gestire piano piano, a conoscere, a fare amicizia con le emozioni negative, che possono venir fuori dai conflitti con mamma e papà e accettare che ci possono essere volontà diverse dalla propria da rispettare.


Dunque, un genitore che impara a dire “no” al proprio bimbo lo sostiene nella sua fatica nell’accettare quel limite, lo aiuta a diventare un bimbo più sicuro di sé, che può muoversi nel mondo conoscendo i propri confini e quelli altrui.A livello emotivo può essere difficile, soprattutto all'inizio, ma il "premio" finale è davvero importante e bello: un bambino in grado di essere coraggioso nelle proprie scelte, che dice di "no" a richieste che considera sbagliate, che sostiene la propria volontà.

"Un No non è necessariamente un rifiuto dell'altro o una prevaricazione, ma puiò dimostrare una fiducia nella sua forza e nelle sue capacità". 
(Phillips, 1999)

di Alessandra Bondi

martedì 27 gennaio 2015

Come usare il divieto secondo la pnl

Anni fa, ho seguito un corso di formazione sulla comunicazione efficace, secondo le metodologie di pnl, e una delle riflessioni più profonde che ne è venuta fuori è stata quella sull'uso del NON. Quante volte lo usiamo con i bambini? Non toccare, non stare seduto in quel modo, non tirare le spinte. Se ci si pensa, certe giornate al nido (o a scuola) sembrano un eterno divieto.

Un piccolo inciso per spiegare cos'è la pnl, o programmazione neurolinguistica. E'un metodo psicologico alternativo, di life coaching, centrato soprattutto sulla comunicazione. Si pensa infatti che i processi neurologici siano connessi al linguaggio e agli schemi di comportamento programmati, cioè acquisiti attraverso l'esperienza.

Come tutti i filoni psicologici e pedagogici, ha il pregio di offrire un punto di vista, sul quale pensare e ripensare l'agire educativo. Così, in questo caso, la mia considerazione va innanzitutto sul NON.

Questa particella negativa ha il potere di stravolgere il significato della frase che state usando. Infatti, chi riceve il messaggio con NON è come se si focalizzasse sull'aspetto di veto della frase e quindi bloccasse ogni altra reazione, anche a livello fisico. Si perde di vista il positivo e non si dà un'alternativa valida a quello che si potrebbe fare.

Anche il linguaggio non verbale è importante. Basta pensare a come si enunciano questi divieti: spesso l'espressione del viso è tirata, quasi arrabbiata; si può allontanare il bimbo dalla situazione; si può alzare l'indice in senso di diniego; si scuote la testa; si alza il volume della voce.

Il primo aspetto su cui porre attenzione è la ricchezza di linguaggio: parlare in maniera adeguata, con soggetti e complementi esaustivi permette di farsi capire meglio e di veicolare un messaggio più corretto, che crea meno ansia. 

Chi ascolta la vostra frase infatti, riesce a decodificare meglio le nostre intenzioni, se chi parla fornisce un numero maggiore di informazioni. Mettetevi nei panni di un bambini: questa cosa sarà molto rassicurante.

Pensate poi a quello che si aggiunge al divieto vero e proprio. Spesso si dice "Così mi fai arrabbiare!": in questo modo si passa all'altra persona la responsabilità delle nostre emozioni, ma in realtà a livello emotivo siamo noi gli artefici di quello che proviamo. "Mi arrabbio quando fai così" è sicuramente una frase più onesta.

Allo stesso modo, l'utilizzo di avverbi come mai, sempre, tutti, nessuno è un'estremizzazione della realtà. "Nessuno mi ascolta", "Tutti i giorni fai così", "Smettila di buttare sempre in terra il bicchiere". E'come se da questi messaggi, trapelasse tutta la frustrazione di chi, in quel momento, non è in grado di valutare la realtà in maniera obiettiva perchè è in preda delle sue emozioni negative.

Anche il verbo dovere funge a livello di veicolazione del messaggio come il non. Indica una responsabilità superiore, estranea a noi. Questa ineluttabilità ci esonera da ogni possibilità di scelta. In realtà la vita è una continua presa in carica: ogni giorno siamo noi a decidere quello che facciamo, anche se si tratta di andare solo dietro ai doveri.

Altri accorgimenti per comunicare in maniera più efficace con i bambini si hanno utilizzando verbi al modo indicativo e non al condizionale, che indica incertezza; specificando il soggetto delle frasi; nominalizzando, che significa concedere temporalità ad ogni stato d'animo.

"Ho paura" è un assoluto, mentre "sono impaurita" mi indica lo stato d'animo di un momento.