mercoledì 29 febbraio 2012

Non dimentichiamoci di Rossella!


Guardo Rossella nelle foto su Internet e subito mi ispira simpatia: è una bella ragazza, dai lineamenti eleganti con capelli di seta nera, infiniti. Tanti ce l’hanno nel cuore e Internet si è mobilitato per lei: Fiorello ha proposto di sostituire l’immagine del profilo di Twitter con quella della ragazza sarda e oggi, 29 febbraio 2012, è stato istituito un blogging day, nel quale ogni blog aderente dedicherà un post alla sua vicenda.

Per non dimenticare.

Perché altrettanti l’hanno fatto… Rossella non ha suscitato i clamori della cronaca, nessun telegiornale le ha dedicato servizi che sviscerassero i lati più reconditi della sua vita, pochi giornali hanno seguito il suo caso. Forse perché era una ragazza talmente normale.
tratta dal sito a lei dedicato

Rossella lascia la Sardegna per studiare a Bologna Cooperazione Internazionale, lavora per il CISP - Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli come coordinatrice di un campo profughi nel Sud dell’Algeria e proprio lì è stata rapita con due volontari spagnoli nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 2011 da alcuni uomini armati del Mali. Da allora le notizie sui tre sono incerte e frammentarie: si parla di un video in cui si presuppone che i tre prigionieri visibili siano proprio loro, si azzardano nomi sul gruppo che li tiene reclusi, ma l’unica certezza sembra essere il fatto che la ragazza sia ancora in vita e sia in buone condizioni di salute.

Allora uniamoci al coro che chiede la liberazione della ragazza: magari non serve a niente, ma di sicuro mantiene vivo l’interesse per Rossella che sicuramente a modo suo, con il suo lavoro voleva un po’cambiare il mondo per renderlo un posto migliore per tutti, senza nessuna prigione.

FREE ROSSELLA!



giovedì 23 febbraio 2012

Ridere come strategia educativa: la storia di Roberta

Ciao a tutti! Mi chiamo Roberta e vi scrivo per raccontarvi la piccola esperienza lavorativa che sto vivendo. Abito nella provincia di Parma, ho 24 anni e studio all'Università di Parma, al corso Scienze dell'Educazione e dei processi formativi, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia. Gli esami stanno per finire (per modo di dire, sappiamo tutti il detto "gli esami non finiscono mai!"), così ho deciso di iniziare a riempire il mio piccolo curricolo e di chiarire un po' le idee su quello che un giorno mi piacerebbe fare. 

Cercando in giro, sono venuta a conoscenza di un lavoro per studenti universitari: tutor per ragazzi con disabilità. Ho accettato subito, in fin dei conti sarebbe stata un'esperienza importante anche per l'università che seguo. Dopo vari corsi di formazione, le paure non se ne erano andate, anzi, erano raddoppiate! Tenete conto che io non avevo esperienze lavorative, se non qualche tirocinio qua e là. Ciò che mi spaventava di più era la paura di non essere accettata dal ragazzo/ragazza che avrei dovuto seguire. 

Ebbene, ho iniziato e posso ora dirvi che le difficoltà ci sono e sono tante. E' sicuramente un lavoro stancante ma vi assicuro che quando arrivo a casa, il sorriso non mi manca. E col passare dei giorni, delle settimana, con le esperienze che mi sto facendo, ho capito che alcune volte, per migliorare una situazione è necessario trovare una strategia. E la mia strategia è unicamente l'ironia


Il mio più grande mito è Patch Adams!! Non fraintendetemi: questo non significa che mi presento alla ragazza che seguo munita di naso rosso e un bel vestito da pagliaccio (anche se lo ammetto, non mi dispiacerebbe). Significa solo che quando mi trovo in difficoltà, quando vedo che la ragazza è un po' giù, magari annoiata o triste, beh... Cosa c'è di meglio di una bella risata?

Il mio compito è quello di seguirla sia in ambito scolastico che extra scolastico. Ci troviamo per fare i compiti insieme, per prepararci alle verifiche, alle interrogazioni. E alcune volte è un po' duro: sapete tutti che esiste il programma differenziato per i soggetti con disabilità, ma lei vuole fare il programma uguale agli altri. Ho notato che il suo più grande problema è quello di non accettare la situazione in cui si trova. E non la biasimo.. Chi lo farebbe? Penso sia importante che lei capisca, ma credo anche che non serva continuare ad insistere dicendole che lei NON può essere come gli altri. Questo secondo me non va bene... 

Proprio perche è una persona molto insicura penso che sia importante incoraggiarla. Ho fin detto dall'inizio che non mi serve sapere le cose che non Sa fare. Per me è importante partire dalle cose che SA fare, dalle sue capacità, dai suoi pregi. Perchè penso che possa aiutarla tanto. E l'obiettivo che mi sono proposta non è tanto quello di aiutarla nei compiti. 

Vorrei un giorno, alla fine del nostro percorso, che lei riuscisse a dire: "si, ho bisogno di aiuto". E vorrei che capisse alla fine che tutti noi abbiamo bisogno, ogni tanto, di qualcuno che ci stia vicino in generale. Chi non ha mai avuto bisogno di aiuto?! Vorrei che capisse che non è una vergogna aver bisogno di qualcuno. E, infine, vorrei averle lasciato qualcosa di me e avere allo stesso tempo qualcosa di lei. Ma questo, senza alcun dubbio, so che succederà. Alla fine, anche io avrò imparato tanto... E chissà, magari avrò anche capito quale sarà la mia strada da seguire! 

Nella speranza di avervi aiutato e di avervi fatto anche sorridere, mando un saluto a tutti voi!! Grazie, Roberta.                                

(testo e immagine di Roberta Messina)

Come avevo accennato, ho chiesto ad alcuni di voi di raccontare le loro storie lavorative. La prima a rispondermi è stata Roberta: il suo ottimismo è contagioso e le sue parole mi hanno dato una bella carica. Come lei, credo molto nel valore della risata per aggregare gruppi, per creare relazioni, per sdrammatizzare, per migliorare l’umore.


Buona lettura!

Se anche voi, volete raccontare la vostra esperienza contattatemi pure via mail o via messaggio privato su Facebook.

lunedì 20 febbraio 2012

Carnevaliamo!!!



Festeggiare il Carnevale è sempre un’occasione per far festa: il nido si veste di tutti i colori, si mangiano dolcetti tipici, ci si traveste secondo quel che ci detta la fantasia.
Dovremmo però pensare al rispetto dei bambini: non tutti amano le maschere e se ci pensiamo si capisce subito il perché. Dipingere la faccia è un atto intrusivo, il bambino non si riconosce allo specchio e il camuffamento dei tratti abituali in  se stesso e negli altri lo spaventa. Cappellini o vestiti artificiosi in genere appesantiscono e impediscono i movimenti.

Carnevale- J. Mirò

Si può festeggiare anche con qualcosa di semplice creato da loro e divertirsi di più. Un abito che ricordi le canzoncine più amate sarà indossato più volentieri (ad esempio, gli indianini della celebre canzone) oppure le magliettine colorate a mano sono sempre un evergreen che non delude mai: un bel risultato con poca spesa. Anche le educatrici potrebbero travestirsi come i bimbi e per finire… stelle filanti a gogò!

Un Augurio per un Carnevale di tutti i colori…

venerdì 17 febbraio 2012

Io Educatore

Sono le storie che fanno conoscere e che fanno crescere. Da questo nasce la voglia di narrarle e di condividerle. Per questo negli ultimi giorni ho chiesto a persone che lavorano a stretto contatto con i bambini di raccontarmi le loro esperienze di vita, perché se le favole ci aprono un mondo di sogni, le testimonianze ci svelano il mondo reale.

Per rompere il ghiaccio partirò con la mia..

Non sempre sono stata sicura di voler lavorare con i bambini. Da piccola volevo fare l’archeologa, poi l’interprete, poi l’assistente sociale… Ancora oggi tante volte mi chiedo se sono stata davvero io a scegliere di percorrere questa strada o è stata lei a dirottare il mio cammino.

L’università è stata determinante: mi son piaciuti i corsi, i libri, tanti professori; il tirocinio mi ha fatto conoscere cose nuove e inaspettate e il percorso di tesi è stato uno dei periodi più intensi della mia vita. Sono stata assunta nello stesso nido (gestito da cooperativa sociale) in cui ho fatto il tirocinio ed è stata una sorta di naturale continuazione. Le educatrici mi avevano sempre appoggiato e mi sono state di grande aiuto quando, senza alcuna esperienza, ho iniziato a lavorare. Il primo periodo è stato un po’ precario per orari e inquadramento professionale, ma la situazione è andata pian piano stabilizzandosi. Dì lì a poco mi fu affidata la sezione Lattanti e la paura era tanta: paura di non essere in grado, di non saper gestire bambini così piccoli e genitori ancor più impauriti di me. Invece tutto filò liscio e l’anno successivo proseguii con i Medi: che bei legami che si costruiscono quando si ha modo di avere una continuità educativa!

L’anno successivo la cooperativa aprì un nuovo nido e mi spostarono a lavorare con nuove colleghe e in un nuovo ambiente. L’asilo era un open space con angoli tematici ben organizzati e sezione mista di medio- grandi. Quell’anno mi ha insegnato davvero molto ma è stato un periodo di forte rimessa in discussione. I metodi di lavoro erano diversi, la gestione degli spazi e del piccolo/ grande gruppo era tutta da imparare, il confronto con il team educativo spesso portava a contrasti, ma la referente del servizio ha avuto la capacità e il grande merito di cementare il gruppo e di avere grande fiducia nei risultati. Il suo ottimismo non poteva che contagiarci e alla fine ho ritrovato le mie motivazioni: i bimbi! Sono loro il motore di tutto, sono loro che rendono il lavoro meraviglioso nonostante orari impossibili, paghe basse, denigrazioni varie.


Alla fine sono riuscita a vincere un concorso al Comune di Firenze (avrei da dire tanto anche sull’importanza di mettersi alla prova ogni tanto... ma rischio di andare fuori tema) e da un anno lavoro lì. La differenza tra Comune e cooperativa è quasi abissale: i ritmi sono più tranquilli, il numero di bimbi più ridotto, il target dell’utenza diverso e… l’assetto amministrativo tutto da studiare. Anche in questo caso ho avuto la fortuna di essere accolta da una collega che mi ha dato fiducia e mi ha lasciato spazio, cosa che non è così tanto scontata.

Questi anni nei nidi mi hanno fatto crescere tanto sia a livello professionale sia a livello umano. All’inizio mi armavo di Pedagogia e lottavo contro i mulini a vento, poi ho capito che calarsi nella realtà è molto più complicato, perché le variabili in questione sono tante quando si parla di relazioni. L’importante è non perdere mai di vista l’obiettivo principale e non agire per rivalsa personale o in maniera casuale. “L’intenzionalità educativa deve essere rivolta ai bambini”: sembra una frase da manuale ma me la ripeto ogni giorno per cercare di svolgere al meglio il mio lavoro.

giovedì 16 febbraio 2012

Blog a scuola


Avere un blog significa esprimere il proprio punto di vista e condividerlo con altre persone che a loro volta daranno la propria opinione riguardo l’argomento trattato, significa creare una comunità in cui ci si arricchisce con la riflessione e con la conoscenza altrui, significa intessere relazioni. Il libro La scuola davanti al blog di Chiara Friso (2009, Società Editrice Internazionale, Torino) realizza un excursus a tutto tondo sul mezzo tecnologico applicato alla didattica e in maniera agevole indica con esempi concreti metodologie per associarlo alla vita scolastica.
La particolarità innovativa del blog ed in generale dei media dell’era 2.0 è di personalizzare la comunicazione: è l’utente a scegliere quello che dire, come farlo e a chi farlo leggere.

La maggiore semplicità e usabilità dei prodotti tecnologici, la loro rapida e capillare diffusione, le nuove applicazioni e contemporaneamente lo sviluppo culturale e sociale hanno reso possibile il passaggio da una Rete monopolizzata ai vertici e appannaggio di pochi a una Rete dove ciascuno democraticamente ha diritto di espressione. A queste condizioni il Web si può sviluppare come luogo nel quale gli individui svolgono il ruolo di utenti, progettisti e autori partecipando con gli altri alla costruzione del puzzle dinamico ed implementabile del sapere collettivo” (ibidem, p.29)

I blog servono per costruire reti informali, costruire legami sulla base di interessi, organizzare uno spazio personale nel quale esprimersi liberamente. Se si pensa al quotidiano e alla facilità di accesso a Internet di ognuno di noi, si manifesta l’urgenza di utilizzare queste nuove tecnologie nella prospettiva di Life Long Learning. Si entra nel web in maniera routinaria e si assimilano informazioni in maniera quasi inconsapevole: scommettere su Internet in campo educativo diviene quasi doveroso. L’apprendimento autonomo viene favorito dalla personalizzazione della rete e allo stesso tempo aumenta le possibilità di scambio, cooperazione, condivisione di contenuti. Ovviamente esistono anche numerose criticità: il numero impressionante di informazioni, l’attendibilità delle risorse, la superficialità delle argomentazioni.
Gli insegnanti potrebbero creare delle micro comunità virtuali per fare compiti, seguire meglio lezioni, favorire lo scambio informale tra gli alunni; allo stesso tempo il blog può essere utilizzato in maniera analoga tra docenti per un ripensamento collettivo sull’azione educativa.


E’quello che facciamo con Educhiamo e di questa esperienza mi arricchisce il confronto e la voglia di ricerca. Facciamo crescere la comunità e investiamo sul 2.0!


sabato 11 febbraio 2012

Perchè i bambini si picchiano?

Ogni anno in ogni sezione in ogni nido sorge lo stesso problema: i bambini si picchiano e nonostante le educatrici facciano il possibile per sorvegliarli, capita di rimandare a casa spesso bimbi graffiati o morsi. Il dispiacere che si ha nel consegnare un bambino "segnato" è tanto perchè non dovrebbe succedere, ma allo stesso tempo abbiamo la consapevolezza dell'inevitabilità dell'accaduto.

L'allarme e il malcontento manifestato dai genitori in queste situazioni è altrettanto scontato e giustificabile: non è bello riportare a casa un bambino con un morso sulla guancia. Scattano i sensi di colpa per averlo lasciato in un ambiente poco sicuro, la paura per un possibile trauma del bambino, la rabbia nei confronti di quegli adulti che sono lì per vigilare. 

In questi casi l'unica cosa da fare e parlarne insieme manifestando i propri sentimenti al riguardo per trovare una strada comune. Come servizio educativo, dovremmo rassicurare le famiglie spiegando che i bambini non si picchiano per le stesse motivazioni degli adulti, che in alcune fasce d'età mordere è una sorta di modalità comunicativa, che la gestione dell'aggressività è una tappa dell'autonomia. Dovremmo spiegare come lavoriamo per prevenire tali episodi (magari con percorsi sulle emozioni) e come interveniamo nei casi di scontro.

A casa il bambino è da solo, circondato da adulti che lo accontentano, ma al nido si ritrova a confrontarsi con altri compagni che sono al suo pari e hanno i suoi stessi bisogni. Imparare ad aspettare, a rispettare l'altro, a condividere fa parte del processo di crescita e del progetto di ogni nido. 

Come adulti, dovremmo trovare la strada per collaborare e mostrare ai più piccoli che nonostante sia difficile fidarsi l'uno dell'altro, possiamo andare insieme nella stessa direzione semplicemente perchè condividiamo lo stesso obiettivo: il bene del bambino.

domenica 5 febbraio 2012

Bambini digitali in scuole digitali

Ho letto "La scuola digitale" di Paolo Ferri (Bruno Mondadori) perchè utilizzo in prima persona il web per fini lavorativi e perchè mi elettrizza il fatto di far parte dell'era 2.0. Pensate alle potenzialità dei nostri mezzi: siamo autori/ fruitori della conoscenza e tutto questo possiamo farlo comodamente da casa confrontandoci con persone che abitano a chilometri di distanza da noi.


In una società in cui ognuno pensa a raggiungere il proprio scopo, la prospettiva di cooperare seppure in maniera virtuale non mi sembra da poco e questo lo sanno soprattutto i più piccoli. "Digital Native", vengono definiti. 

Sono coloro che sono nati in un mondo pieno di tecnologie digitali e che quindi imparano ad usarle fin dalla nascita. Sarebbe impossibile pensare che questi bambini, una volta entrati a scuola, abbandonassero tutti i media che sono abituati ad usare ogni giorno per studiare solo e soltanto libri indicati dagli insegnanti.

Quest'ultimi infatti sono considerati "Gutenberg Native", figli della stampa e della carta, e spesso non metabolizzano i nuovi linguaggi delle tecnologie informatiche. Anzi, spesso sembrano ostacolare l'utilizzo di computer nelle scuole o a casa per fini didattici.

La situazione che vivo ogni giorno non è proprio quella descritta dal libro. E' vero che le potenzialità del Web 2.0 non sono ancora sfruttate a pieno dal mondo della scuola, sia per motivazioni economiche sia per bassa conoscenza (e quindi diffidenza). 

Vedo anche un crescente interesse per questi mezzi comunicativi ed espressivi: è evidente il risparmio di energie e di tempo, l'immediatezza dei messaggi, la possibilità di connessione e condivisione. Il libro comunque offre spunti di riflessione interessanti e Paolo Ferri, professore dell'Università Bicocca di Milano gestisce anche un blog sull'argomento.


A questo indirizzo la scheda del libro:

giovedì 2 febbraio 2012

Per una scuola creativa alla Ken Robinson

Oggi mi sono imbattuta in un videoCambiare i paradigmi dell’educazione: un buon illustratore disegna a parole quello che Sir Ken Robinson sta spiegando (tradotto in italiano da una voce un po’antipatica). La nostra incertezza culturale ed economica viene risolta istruendo in ragazzi in maniera univoca e standardizzata. 

Il nostro sistema educativo è ormai antico e legato al sistema industriale, legato a sua volta al sistema piramidale delle capacità. L’arte viene penalizzata, così come tutte le menti divergenti: “Dobbiamo uscire dal modello che divide accademico da non accademico”. La voce prosegue ancora mostrando che l’apprendimento di gruppo è più efficace rispetto a quello di un cervello isolato.

Niente di nuovo insomma, ma tutto ancora da realizzare! Ho guardato altri due video “La scuola uccide la creatività?” e “Come vengono le buone idee?”… I concetti espressi sono più o meno gli stessi: l’esaltazione di un pensiero creativo rispetto all’omologazione delle intelligenze, la volontà di riuscire a scovare la vera attitudine di ognuno di noi, la critica a una scuola troppo costrittiva e penalizzante.

Sir Ken Robinson ha insegnato Educazione Artistica all’Università di Warwick (Gran Bretagna) per molto tempo e conosce bene il sistema scolastico inglese. Ha ricevuto la nomina di baronetto per i suoi contributi al mondo dell’arte nel 2003, ma poi si è trasferito a Los Angeles. Ha scritto molti libri, tra cui Out of mind: Learning to be creative. Nessun libro è stato tradotto in italiano.

Secondo Robinson il modello di educazione globale dovrebbe essere revisionato, occupandosi di più dei reali bisogni di ogni singolo bambino. Non ci dovrebbe essere una gerarchia di materia stilata in base alla spendibilità lavorativa di ciascuna di esse. Invece si spinge un bambino a studiare matematica piuttosto che musica, lingue straniere piuttosto che arte, senza minimamente pensare al talento nascosto che c’è in lui. Questo mortifica l’individuo, a cui non è stata data l’opportunità di scoprire la sua strada.

Pensieri letti e riletti nei libri di pedagogia, ma pensateci bene: dove sta la realtà? Conosco insegnanti che cercano di far emergere le potenzialità di ogni alunno, ma quante altre sono schiacciate dal sistema di "produzione curriculare" scolastica?! Non ha tutti i torti questo professore inglese e nel nostro piccolo come maestre, come educatori, come genitori, come adulti dovremmo dare del tempo ai bambini per ricercare insieme a loro quelle risorse speciali nascoste in loro.

Date un'occhiata ai video e lasciate il vostro commento, se vi va, per poter confrontarci su queste tematiche, che andrebbero discusse e ridiscusse. Qui di seguito, i link per vedere i video:

“Cambiare i paradigmi dell’educazione”: http://www.youtube.com/watch?v=auRcvgKfqBk

“La scuola uccide la creatività?”: http://www.youtube.com/watch?v=PauDxDdKP1k&feature=related 

mercoledì 1 febbraio 2012

Neve, magistra vitae


Chi non ha sbuffato almeno una volta di fronte alle previsioni del tempo che segnalavano precipitazioni nevose? Chi non ha maledetto il cielo mentre di prima mattina cercava di ripulire la macchina dal ghiaccio? Per non parlare di tutti quegli impegni saltati a causa della neve…

La mia città innevata
Dicono che gli unici felici in tempi di nevicate siano i bambini e gli sciatori: i primi perché chiudono le scuole, costruiscono pupazzi di neve, si rotolano e giocano a pallate. Eppure se ci fermiamo a riflettere la neve ha molto da insegnare.

Innanzitutto rende tutto così silenzioso e ogni tanto un po’di riposo auricolare fa bene. Serve ad abbassare i toni, non serve urlare e di conseguenza ci si agita meno.
La neve crea poi disagio alla viabilità e allora obbliga a spostarsi a piedi, attività ormai perduta per sempre. Le distanze non sembrano più insormontabili, si trae beneficio da quel poco di moto fisico, si ha del tempo solo per se stessi, per pensare o per ascoltare musica, si gode il panorama della nostra città, oggi vestita a festa come nei migliori party modaioli (only white, please).
La neve rende bello: è indubbio! Tutto ha il suo fascino colorato di bianco e allora si guarda con occhi diversi, si fotografa, si rende reale proprio quel vicolo da cui passiamo tutti i giorni, ma chissà perché, era sempre stato solo e soltanto una via di transito.

Alla fine forse è vero… gli unici felici in tempi di nevicate sono davvero i bambini: chi di noi in questi periodi non ha voglia di creare, lanciare, correre, rotolare, giocare, sdraiarsi… chi di noi in questi giorni non ha voglia di giocare con la neve?

Siamo tutti un po’bambini quando c’è la neve. Fin troppo spesso ce ne scordiamo ma fortuna che esistono gli allarmi meteo a ricordarcelo.