martedì 25 aprile 2017

L'outdoor education: qualche riflessione

Il concetto di outdoor education (OE) è in realtà molto semplice e condivisibile, sebbene il termine inglese lo elevi a una scientificità che gli spetta, se vuole essere preso sul serio. Ogni buon educatore fa outdoor education, ma andiamo con calma e spieghiamo bene di cosa si tratta.

L'emergenza della nostra società è quella di vivere in città di cemento, dove è sempre più difficile trovare il tempo per portare i bambini in spazi aperti e giardini sicuri. Ne consegue che le esperienze libere di gioco stanno sempre più diminuendo.

Nella mia città i bambini dei condomini, si incontrano sempre meno nell'ambiente comune per organizzarsi in partite di calcio, strega comanda color, nascondino. Quando ero piccola, era la norma che bambini piccoli e ragazzetti preadolescenti giocassero insieme in autonomia fino all'ora di cena e di estate, anche oltre.

Questa situazione però non ha dirette conseguenze solo sull'esercizio dell'autonomia e della creatività, del gioco libero e della socialità: pensiamo anche alla salute. Un bambino che si muove, che corre, che si arrampica, che salta, sarà sempre più sano di uno che passa il pomeriggio di fronte alla TV.



L'insieme delle pratiche che rendono il "fuori dalla porta" un'aula educante è l'outdoor education, che può essere messa in pratica sin dal nido. Ne abbiamo parlato intervistando Paolo de L'asilo nel bosco di Ostia. Il testo di Farnè e Agostini ne è diventato una sorta di manuale.

Riconoscere la valenza di queste esperienze significa aprire scuole e asili all'ambiente, alla stagionalità, all'imprevisto. Significa conoscere quale è l'abbigliamento giusto per situazioni climatiche diverse, significa camminare e correre in spazi più vasti, significa avere la responsabilità di se stessi. Esperire il rischio infatti vuol dire imparare a riconoscere il pericolo.

Vorrei concludere con questa affermazione del prof. Ceciliani sull'argomento,  durante un convegno a Rimini:

"L’adulto deve affiancare il bambino nel suo percorso di scoperta e di crescita, non proteggerlo ossessivamente. Non si tratta di mettere i bambini in pericolo ma di accettare la dimensione del rischio permettendo ai più piccoli di raggiungere quella che Vygotskij chiamava ‘zona di sviluppo prossimale’, il luogo in cui il bambino può evolvere oltre quanto già sa fare ed esprimere pienamente le sue potenzialità di persona unica e irripetibile”


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